Popular

Dietro il filo spinato: le ombre umane di Omarska

Era il 5 agosto 1992 quando le immagini trasmesse in tutto il mondo mostrarono i volti scavati di uomini aggrappati alla vita, dietro un filo spinato che sembrava uscire da un passato troppo vicino per essere dimenticato. Le guance infossate, i corpi ridotti a scheletri viventi, gli occhi vuoti: ricordavano le figure emaciate di Auschwitz. Ma non era la Polonia del 1940, bensì la Bosnia del 1992. Il campo di Omarska, una vecchia miniera di ferro nel nord del Paese, era diventato l’epicentro di un orrore che riportava alla luce la brutalità dei campi di concentramento, questa volta in un conflitto che stava lacerando la ex Jugoslavia.

“Non sprecheremo i nostri proiettili con loro”, disse senza esitazione una guardia del campo a un rappresentante delle Nazioni Unite. “Non hanno un tetto. C’è il sole e la pioggia, notti fredde e percosse due volte al giorno. Non diamo loro né cibo né acqua. Muoiono di fame come animali.”

Quello stesso giorno, il giornalista Ed Vulliamy del Guardian fu uno dei primi a mettere piede a Omarska. Davanti a lui si aprì un panorama desolante e disumano: uomini rasati, con vestiti troppo larghi per corpi ridotti all’osso, avanzavano a fatica verso una mensa. “Le loro ossa sporgevano come pietre frastagliate,” scrisse. “La loro pelle era corrosa, le carnagioni putrefatte. Erano vivi ma decomposti.” I prigionieri avevano tre minuti per raggiungere la baracca, raccogliere una misera razione di stufato di fagioli, ingoiarla e tornare indietro. Chi non rispettava il tempo veniva punito con violenza.

Mirsad, un sopravvissuto, descrisse quelle “pause pranzo”: “Lo stufato era bollente, e dovevamo ingoiarlo in fretta. Avevamo tutti ustioni interne. L’interno della mia bocca si staccava.” Vulliamy, che cercò di parlare con uno di quei prigionieri, fu fermato da uno sguardo terrorizzato. “Non voglio dire bugie,” sussurrò l’uomo. “Ma non posso dire la verità.”

All’interno del campo, la situazione era ancora più infernale. La “Casa Bianca” e il grande “capannone color ruggine” erano luoghi di sofferenza estrema. Un sopravvissuto, Sakib R., raccontò: “Eravamo stipati come polli. Non c’era spazio per sdraiarsi. Molti impazzivano. Quando qualcuno perdeva la testa, urlava e tremava, lo portavano fuori e lo fucilavano.”

La violenza era una costante. A differenza delle esecuzioni meccanizzate dei nazisti, qui gli omicidi erano personali, intimi, spesso eseguiti con mazze, tubi di ferro o coltelli. Un prigioniero raccontò a Helsinki Watch: “Ci picchiavano con cavi intrecciati e tubi pieni di piombo. Ogni colpo era una tortura infinita.” Un altro descrisse una scena quotidiana: “Ogni giorno vedevamo cadaveri ammassati. Venivano caricati su camion dopo che avevano scaricato il cibo. A volte erano trenta, a volte molti di più.”

Un prigioniero bosniaco mostra il suo corpo a un ufficiale serbo nel campo di prigionia serbo di Manjaca, vicino a Banja Luka, Bosnia Erzegovina, agosto 1992. Foto: EPA/STRINGER

L’orrore era amplificato dalla brutalità delle guardie, alcune delle quali avevano trasformato il sadismo in una sorta di macabra celebrità. Rezak Hukanovic, un ex giornalista, raccontò l’episodio di un prigioniero che rifiutò di spogliarsi. “La guardia lo colpì con il calcio del fucile,” scrisse. “Poi estrasse un lungo coltello militare e lo usò per mutilarlo davanti agli altri prigionieri. L’uomo urlava, ricoperto di sangue. Poi lo lavarono con un getto d’acqua gelida, ridendo come matti.”

Alcune guardie, come Zoran Zigic, detto “Ziga”, si distinguevano per la loro ferocia. Hukanovic lo descrisse: “Magro, con una grande cicatrice nera sul viso, sembrava un diavolo antico. Quando colpiva, il sangue dei prigionieri si accumulava sotto di loro come una pozzanghera scura. Ziga sorrideva, si rinfrescava e ricominciava a picchiare.”


Gli internati sono orribilmente magri e con le ossa rotte. Alcuni sono quasi cadaverici, con la pelle come una pergamena piegata intorno alle braccia; i loro volti hanno la mascella di lanterna e i loro occhi sono ossessionati dallo sguardo vuoto del prigioniero che non sa cosa gli accadrà dopo.

— Ed Vulliamy, giornalista guardian uk

    La tortura non era solo fisica, ma profondamente psicologica. Djemo, lo stesso Hukanovic, ricordò il momento in cui fu chiamato per essere picchiato: “Mi colpirono sulla testa fino a farmi cadere. Poi arrivarono altre guardie, ognuna con una mazza o un tubo in mano. Sembrava un branco di lupi affamati. Mi costrinsero a inginocchiarmi e mi colpirono fino a quando il mio viso era irriconoscibile.”

    Questo sadismo non era privo di una giustificazione ideologica. Il progetto della “Grande Serbia” richiedeva, secondo la propaganda, una pulizia etnica per liberare i territori da qualsiasi presenza non serba. Il presidente Slobodan Milošević, attraverso i media controllati dallo Stato, instillò nei suoi compatrioti un senso di paura e vulnerabilità, trasformando i bosniaci in nemici da annientare. Per le guardie del campo, ogni pestaggio era un rituale di dominio, una riaffermazione del potere su coloro che venivano dipinti come una minaccia esistenziale.

    Le storie di Omarska, raccolte nei libri di memorie come Il decimo cerchio dell’inferno, mostrano quanto fosse sistematica la disumanizzazione. Hukanovic, riflettendo su ciò che aveva vissuto, scrisse: “Non era solo violenza. Era una dichiarazione: ‘Non sei più un essere umano. Sei niente. Sei la prova del nostro potere.’”

    Le atrocità di Omarska non furono un incidente isolato, ma il prodotto di una strategia precisa e consapevole. L’ideologia alla base di quella violenza non era nuova: risaliva a secoli di tensioni, ma venne sfruttata e amplificata in modo scientifico. La domanda che rimane è come il mondo abbia potuto assistere a tutto questo senza intervenire in tempo.

    Condividi
    URL da condividere
    Post Precedente

    Un nuovo fronte in Sudan aggrava il pericolo di carestia

    Post successivo

    Bespredel, la violenza russa senza limiti

    it_ITItalian