Marvin Gate non è propriamente un nome da donna. È uno pseudonimo, ma è diventato essenziale per la sicurezza di una giornalista, di una donna che dal 2015 ha iniziato a lavorare assieme a colleghi fotografi per raccontare quello che accadeva in Siria, documentando la vita quotidiana della gente comune durante la guerra. Il suo progetto multimediale sarebbe poi diventato noto come Humans of Syria.
“Non potevo dire a nessuno cosa stavo facendo, nemmeno i miei amici più cari”, ha detto Gate.
All’epoca viveva in un’area controllata dal governo siriano, il che significava che non affrontava necessariamente i bombardamenti quotidiani e il caos subiti da molti altri membri di Humans of Syria nelle aree controllate dall’opposizione. Tuttavia, la costante sorveglianza del governo e la lealtà forzata al presidente siriano Bashar Assad le hanno reso difficile – e spesso pericoloso – osservare e comunicare, anche in segreto.
Gate ha vissuto per molto tempo guardata a vista dal governo. Forse si chiedeva costantemente quale checkpoint o quale telefonata l’avrebbe tradita svelando la sua vera identità.
“Non mi stavo solo mettendo a rischio. Vivevamo tutti nella costante paura di essere scoperti o che qualcosa di terribile accadesse a un amico, a un familiare o a qualcuno del nostro team”, ha detto. “Non stavamo facendo nulla di sbagliato. Stavamo solo raccontando storie di persone comuni, che sono artisti, fotografi e insegnanti, ma il regime voleva solo che fossero identificate e segnalate come terroristi”.
Gate è diventata sempre più delusa dalla vita nelle aree controllate dal governo della Siria, e mentre il suo lavoro diventava sempre più pericoloso, sentiva di non avere più un impatto forte nella popolazione stessa così decise di fuggire in Turchia.
La sua è una delle tante storie, soltanto una delle migliaia di cittadini e cittadine giornalisti e attivisti dei media che sono stati cacciati dalla Siria e costretti a raccontare il loro paese dall’estero. Migliaia di altri sono rimasti, ma il loro lavoro è diventato sempre più pericoloso man mano che i loro colleghi se ne vanno. Il risultato è che sempre meno giornalisti sono in grado di riportare le notizie dall’interno della Siria. In un certo senso, questo ha creato maggiori opportunità per le donne di far parte dei media.
Alla fine del 2015, in Siria, le donne rappresentavano il 35% della forza lavoro nei supporti cartacei indipendenti e il 54% nella radio, secondo un rapporto del Syrian Female Journalist Network (SFJN), un’organizzazione senza scopo di lucro che forma giornalisti sia maschi che femmine su questioni di genere e media e sfida gli stereotipi che le giornaliste devono affrontare nella regione.
In Turchia, Gate ha continuato a lavorare con Humans of Syria, che oltre a postare fotografie e storie sui social media diventando un’agenzia di stampa de facto, spesso schierata per raccogliere le ultime notizie e confermare informazioni per i giornalisti che non riuscivano ad accedere alle storie autonomamente. Gate ha diffuso notizie ai media internazionali usando la sua vasta rete di attivisti dei media e documentaristi all’interno della Siria.
“Sappiamo che le nostre storie potrebbero non necessariamente cambiare ciò che accade”, ha detto Gate, ricordando un pezzo che ha messo insieme per il Mail Online, chiedendosi se il Regno Unito debba o meno intervenire nella guerra civile siriana.
“Ma queste testimonianze sono come un documento per la nostra storia”, ha continuato. “Vogliamo assicurarci che la storia abbia un documento che dica che noi, come siriani, non volevamo più bombardamenti – che sapevamo che questo non avrebbe aiutato la nostra situazione”.
Oltre ad avere un’alta formazione, molte giornaliste hanno un vantaggio rispetto ai loro colleghi maschi proprio a causa del loro genere. Come donne, hanno una visione unica dell’impatto umanitario del conflitto, che ha colpito in modo sproporzionato donne e bambini. Sono anche in grado di condurre interviste con donne nelle aree conservatrici della Siria, portando alla luce storie a cui i loro colleghi maschi non potrebbero mai accedere.
Il grande numero di media che si sono aperti alla diffusione di notizie sulla rivoluzione ha aumentato il numero di opportunità per le donne. Inoltre, molte di esse sono state costrette a prendere in mano le sorti della propria famiglia, scavalcando i ruoli tradizionali per necessità e facendo luce sul dibattito culturale sul fatto che alle donne debba essere permesso o meno di occupare posizioni professionali in Siria.
Nonostante tutto rimane più difficile per le donne lavorare come giornaliste rispetto agli uomini. Oltre ai rischi professionali di essere una giornalista in Siria – come l’esperienza di Gate di estrema sorveglianza e sfiducia nelle aree controllate dal governo, i bombardamenti aerei e il caos della linea del fronte in territorio controllato dall’opposizione e “l’aumento dello stigma della detenzione” in Siria – le giornaliste affrontano ancora un enorme sessismo.
“È estremamente pericoloso vivere e lavorare sotto bombardamenti e armi pesanti, così come la costante minaccia di detenzione di uno di noi o delle nostre famiglie”, ha detto Sarah al-Hourani, capo dell’ufficio stampa dell’Assemblea delle donne libere di Daraa (FWAD) e documentarista volontaria per la protezione civile siriana.
Oltre all’ambiente sessista in cui lavorano molte donne, l’ascesa di gruppi estremisti, come l’ISIS, ha ulteriormente messo in pericolo le donne lavoratrici facendole passare da figure controverse a obiettivi, ha aggiunto al-Hourani.
“La presenza militare e il deterioramento dell’ambiente di sicurezza hanno un impatto su di noi, come donne, molto di più rispetto agli uomini”, ha evidenziato al-Hourani. “Dobbiamo anche tenere conto dell’ambiente sociale che ci circonda”.
Una giornalista intervistata per lo studio di SFJN ha detto: “I miei colleghi non mi lasciano andare con loro, nonostante io sia in grado”. Un altro intervistato, un manager uomo di un media siriano, ha detto di “avere paura di prendersi la colpa se succede qualcosa di brutto a un membro dello staff femminile che lavora all’interno della Siria”.
Il rapporto SFJN ha rilevato che, alla fine del 2015, solo il 4 per cento dei giornalisti senior dei media siriani emergenti erano donne. Molte donne che lavorano presso le agenzie di stampa intervistate per lo studio hanno affermato che i loro reportage venivano messi da parte nelle redazioni, in favore dei pezzi di opinione dei loro colleghi maschi. Altre riferiscono un sessismo più palese, come essere chiamate “inadatte” al matrimonio, semplicemente perché partecipano alla vita pubblica e intervistano “strani” uomini.
Poiché molte giornaliste sono anche impegnate nel prendersi cura di bambini o parenti anziani, molte di loro sono diffidenti nell’affrontare i pericoli dei tradizionali reportage di guerra e cercano di ridurre al minimo il rischio per la loro vita e le loro famiglie, partecipando ai media come documentaristi. Molti trascorrono lunghe ore al telefono, confermando e seguendo gli eventi, raccogliendo testimonianze di violazioni e crimini di guerra.
“Mi sono reso conto di quanto fosse importante questo lavoro nel 2013, quando la gente di Daraa stava affrontando condizioni così difficili”, ha detto al-Hourani, raccontando i giorni difficili dell’offensiva militare su Daraa.
“Sono motivata dall’enormità dei sacrifici fatti dal popolo siriano”, ha concluso, “Soprattutto, sono guidata dalla necessità di garantire che venga fatta giustizia sui criminali che hanno commesso innumerevoli crimini contro il nostro popolo”.
“La fotocamera è uguale a un’arma, devi documentare ogni singola cosa che sta accadendo. Perché negli anni ’80, quando eravamo in una situazione simile, nessuno aveva idea di cosa stesse succedendo a Homs e Hama – dice, riferendosi a una brutale repressione dell’allora presidente Hafez Assad. [ … ] -. Decine di migliaia di persone furono uccise allora”.
Noor Kelze